lunedì 14 luglio 2008

Quando la ricerca incontra la tradizione

La figura di Dave Liebman (New York, 1946) è senza dubbio tra le più importanti che il jazz abbia espresso negli ultimi vent'anni. Cresciuto nel gruppo di Elvin Jones (1971-73) e poi approdato alla corte del Miles Davis elettrico (1973-74), il sassofonista (tenore e soprano, che all'occorrenza suona anche flauto, tastiere e batteria) ha disseminato durante la sua lunga carriera gemme di rara bellezza, incidendo in contesti sempre diversi, e spingendosi talvolta in arditi territori di ricerca (come nello splendido Drum Ode, dove si confronta con un ensemble di percussioni). 

Liebman è un musicista dalla sensibilità straordinaria, che non manca mai di sorprendere e di fornire nuovi spunti alla storia dell'improvvisazione in campo jazzistico. Un sassofonista che da quasi un ventennio costituisce un punto di riferimento (alla stregua di uno Steve Lacy) per chiunque voglia imboccare un sax soprano. Il suo credo musicale, si legge in un articolo a sua firma, si fonda su tre principi riconducibili tutti alla lettera H: Hand, Head, Heart. Ed, in effetti, ascoltando i suoi dischi, emerge in maniera abbastanza chiara che uno degli obiettivi del musicista è quello di far convivere nella stessa musica astrazione e visceralità (o, se si vuole, intelletto e cuore). Ma, vista l'enorme difficoltà dell'impresa, ciò non sempre riesce, e allora ecco che alcuni suoi dischi diventano mero esercizio intellettuale e - si può dire? - ogni tanto annoiano.

Plays the Music of Cole Porter, uscito per la Red Records di Sergio Veschi quindici anni fa, è un disco che propone Dave Liebman alle prese con un repertorio tradizionale. L'autore scelto è il celebre compositore americano Cole Porter, la cui concezione armonica sembra essere molto apprezzata dal sassofonista newyorkese. Probabilmente, la riuscita di questo disco si deve anche al fatto che Liebman si cimenta di rado con gli standards, e ciò rende il lavoro su Porter una vera e propria occasione di incontro (e confronto) tra la sperimentazione ed un repertorio classico. 

Magnificamente supportato da una ritmica precisa e ricca di colore (Steve Gilmore al basso, Bill Goodwin alla batteria), Dave Liebman utilizza classici come I Love You o I've Got You Under My Skin per piegarli alla propria concezione musicale, così che possa rivalutarli ed arricchirli di nuova luce – notevoli, alcuni squarci improvvisati. In altre parole, il musicista traduce anziché riprodurre, e grazie ad un approccio così intelligente ricava un disco fresco, brillante ed anche - sorprendentemente? - rispettoso della tradizione jazzistica. 

Quanto ai brani che compongono questo lavoro, non c'è che l'imbarazzo della scelta: tutti di ottima fattura, con personale predilezione per i già citati I Love You e I've Got You Under My Skin, per It's All Right With Me e per i due straordinari duetti, rispettivamente con basso e batteria, di Why Do I Care? e Ridin' High; quest'ultimo, di una tale fisicità da riportare alla mente il Coltrane più viscerale.

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