lunedì 21 luglio 2008

Life is a great journey through illusion

Every moment of this journey is so
intense. Some people play with it, some people
try to learn how to win, some people just pass through it!
... I am sinking into every passing moment.
And I am grateful for this illusion which
presents me every second with a new fruit
to taste. Sweetness, sorrow, anger,
happiness, passion and depression. All is
Fullness and Emptiness. Oh, what a taste!
... I'm born naked and I will die naked.
All I can take from this great illusion called
Life is my Spirit...

(Naked Spirit)


Sainkho Namtchylak è nata nel 1957 in un piccolo villaggio della ex repubblica sovietica di Tuva, nella Siberia meridionale, poco distante dalla Mongolia. Dopo aver intrapreso lo studio della musica classica presso l'università locale, si reca a Mosca, dove completa gli studi e s'interessa alle tradizioni vocali dei lama e degli sciamani siberiani. E' nella capitale russa che nasce la sua passione per il patrimonio vocale di Tuva, e per il canto gutturale difonico (o diplofonico), che delle culture tuvana e mongola è espressione. Tale fenomeno vocale consiste nell'emissione simultanea di due suoni: uno grave (fondamentale) che continua, ed un altro più acuto, della serie degli armonici. Questa particolare tecnica è stata a lungo appannaggio di voci maschili. 

La carriera artistica di Sainkho Namtchylak comincia nella seconda metà degli anni Ottanta; prima nel Sayani, il Tuvan State Folk Ensemble, poi al fianco di alcuni musicisti sovietici, con i quali comincia a sperimentare nuove forme espressive, partendo da sonorità tradizionali tuvane. In questo periodo fa anche parte del Tri-O, gruppo jazz moscovita nel quale figurano Sergej Letov (sax), Arkadij Kiritschenko (tromba) e Alexander Alexandrov (fagotto), e col quale partecipa a diversi festival europei. Incide, tra l'altro, col noto sassofonista inglese Evan Parker e col bassista tedesco Peter Kowald. Il Tuvian Throat Singing si apre a contesti di carattere jazzistico-improvvisativo. E viceversa.

La sua voce cristallina, duttile e umbratile - come lei stessa l'ha definita in un'intervista - è, a mio avviso, quanto di più entusiasmante si possa ascoltare oggigiorno. (Anche se, vi avverto, chi non è abituato a questo tipo di suoni potrebbe annoiarsi tremendamente). Sainkho possiede un enorme potenziale vocale: è abilissima nel passare dai sovracuti alle tonalità più gravi e dotata di un notevole senso ritmico. Ma la sua assoluta padronanza dei mezzi tecnici non è mai fine a se stessa; al contrario, qui il virtuosismo e la sperimentazione timbrica sono messi al servizio della musica. Ed è proprio questo bagaglio tecnico, arricchitosi anche grazie alle diverse esperienze musicali, ad offrire all'artista un'altrimenti impensabile tavolozza espressiva. 

Grazie alla sua grande estensione vocale, Sainkho tratteggia figure evocative (il vento, il canto degli uccelli), lasciandosi sedurre da suggestioni elettroniche, reminiscenze folk tuvane e, perché no, intense aperture melodiche che richiamano la migliore musica pop.

Un'artista che fa della propria musica un mezzo attraverso il quale esplorare nuovi territori sonori, e che ciononostante non perde mai il contatto con la consolidata tradizione vocale della propria terra. Non so a voi, ma l'utilizzo che Sainkho fa della tradizione tuvana a me sembra un ottimo modo per continuare a perpetuarla. Rinnovandola.

Dischi consigliati:

Naked Spirit (Amiata Records) 
Sainkho. Una voce da Tuva (L'Unità Jazz/Amiata Records)
Stepmother City (Ponderosa Music & Art)

venerdì 18 luglio 2008

Incantevoli paesaggi capoverdiani

Una decina di isole al largo della costa senegalese compongono l'arcipelago di Capo Verde, ex colonia portoghese, terra culturalmente più prossima al Brasile che al continente africano. Da qui proviene Cesaria Evora, classe 1941, voce prodigiosa e interprete straordinaria, per anni cantante in un bar di Mindelo (dov'è nata e tuttora vive), grande porto dell'isola di São Vincente. Il successo le arriderà tardi, agli albori degli anni '90, prima in Francia (dove oggi è un'autentica diva), poi nel resto del mondo. 

Le sue canzoni affondano le radici nella tradizione musicale di Capo Verde, la più antica e sincera passione di Cize (così la chiamano gli amici). Morna, dunque, la musica popolare nata dall'incontro tra il fado portoghese ed elementi ritmici brasiliani, e pervasa da un senso di nostalgica malinconia, quella che laggiù chiamano sodade. Ma anche coladera, altra espressione musicale di questa magnifica terra, più allegra, vivace e vicina ai ritmi afro-brasiliani. 

Stamattina ho messo su Voz d'Amor, il suo decimo album, una delle migliori uscite di Cesaria Evora (ad oggi, gli è seguito solo Rogamar che francamente mi convince meno), disco che raccoglie in prevalenza brani di autori capoverdiani. Il Poeta B. Leza (1905-1958), zio della cantante e leggendario autore di morna, al quale è dedicata l'apertura dell'album (Isolada). Gregorio Conçalves (Saia Travada) e Manuel Novas (Ramboja, Nha Coração Tchora), ovvero il recente passato e il presente della coladera. Ancora, Luis Morais, autorevole rappresentante della musica di Capo Verde scomparso nel 2002, dal cui repertorio Cize pesca la bella (e inedita) Velocidade. Theofilo Chantre - fido collaboratore di Cesaria - che, oltre al brano che dà il titolo al disco, firma la musica di Amdjer de nos terra (le liriche sono di Vitorino Chantre) e rivisita, peraltro magnificamente, Greenfields dei Brothers Four, che qui diventa Jardim Prometido. 

E' un amore incondizionato, quello che Cesaria Evora nutre per l'arcipelago africano, proprio come quello che traspare, con un'intensità disarmate, dai versi di Mar de Canal, il gioiello del disco. Un brano tradizionale, arrangiato da Fernando Andrade, in cui la "diva aux pieds nus" canta la nostalgia per il canale che divide le isole di São Vincente e San Anton. E attraverso le note, si scorge un'incantevole visione del porto di Mindelo. 

giovedì 17 luglio 2008

Long live the record store, and the guys and girls who turn the key, and unlock those dreams, every day!

La frase è del regista Cameron Crowe (ha diretto, tra gli altri, Singles, Almost Famous, Vanilla Sky) e fu pronunciata in occasione del Record Store Day dello scorso 19 aprile. M'è venuta in mente stamattina, dopo aver letto le affermazioni di Pete Townshend, leader dei leggendari Who, riportate su La Stampa di oggi.

Il chitarrista ha affermato che i nuovi supporti discografici digitali (mp3 et similia) fanno male perché contribuiscono ad infondere in chi ascolta un senso di alienazione. "Rimpiango i tempi in cui si usciva per andare in un negozio a comprare il disco: lo si guardava, lo si ascoltava e lo si toccava. La musica aveva più fascino e soprattutto non lobotomizzava centinaia di ragazzi che ora restano incollati a internet per scaricare le canzoni", ha spiegato.

Vai a dargli torto, al vecchio Pete. Io in un negozio di dischi ci ho lavorato anni e ci sono letteralmente cresciuto. E la cosa che mi piaceva di più di quel mestiere era consigliare, proporre, raccontare i dischi e le piccole storie che ci sono dietro. Un po' come faccio anche qui. 

Tutto ciò senza contare quello che molti clienti (alcuni dei quali avevano i miei anni moltiplicati per tre!) mi hanno insegnato e trasmesso. Insomma, per me, anche quando stavo dall'altra parte del bancone, erano sempre occasioni di scambio, di confronto. Di condivisione. Là dentro sono nate anche molte amicizie che ancora oggi resistono. 

E poi volete mettere l'emozione che si prova ad entrare in un negozio di quartiere come il Championship Vynil di Rob Fleming (leggete Nick Hornby, Alta fedeltà, se non l'avete fatto) col restare impalati davanti all'insensibile monitor di un pc per ascoltare l'ultimo singolo dei R.E.M.?

Insomma, come dice Crowe, lunga vita ai negozi di dischi e a quei ragazzi e ragazze che, girando la chiave, aprono ogni giorno la porta verso un mondo di sogni.

mercoledì 16 luglio 2008

Caetano Veloso, le chanteur de l’invention brésilienne


Giravo su quella miniera di filmati che è Youtube, e mi sono (piacevolmente) imbattuto in una registrazione tratta dal concerto che Caetano Veloso ha tenuto alla Reggia di Caserta domenica scorsa. Nel video, il cantautore brasiliano si esibisce, voz e violão e in un ottimo francese, in una bella versione de La mer del grande chansonnier Charles Trenet. Peccato non esserci andato anche questa volta, perché un concerto di Caetano Veloso è sempre un'esperienza a sé, solitamente indimenticabile.  

La storia di Veloso comincia sul finire dei '60 con un ellepì, Domingo, che lo vede esordire accanto ad un’altra artista bahiana, Gal Costa; un disco che sia apre, guarda il destino, con un brano che ancora oggi è tra i suoi più amati: Coraçao Vagabundo. Erano gli anni della Tropicália, il movimento che ha poi ribaltato la tradizione della musica popolare brasiliana, e che ha trovato nell’omonimo brano di Veloso (tra gli ideatori di quel progetto) un autentico manifesto - “[…] io organizzo il movimento / io oriento il carnevale / io inauguro il monumento / nell’altopiano centrale del paese…”. Da allora, sono passati più di quaranta anni, con altrettanti album e centinaia di concerti in giro per il mondo. 

Ma quella di Caetano è una vicenda artistica ed umana troppo lunga e densa di significati per essere raccontata su un taccuino come questo. Chi mi conosce, poi, sa che per l'artista brasiliano nutro una profonda ammirazione, che spesso mi porta ad essere esageratamente prolisso quando parlo di lui (d'altronde anche questo post dimostra che per me ogni occasione è buona per parlarne...). Per una volta, dunque, vi risparmio il panegirico e mi limito a consigliarvi - ma solo se non vi siete ancora avvicinati alla musica di Veloso - di ascoltare qualche suo disco (CirculadoPrenda Minha Omaggio a Federico e Giulietta sono buoni punti di partenza). 

Vi accorgerete che ciò che più risalta nell’arte del cantautore brasiliano, oltre all'accecante bellezza di alcune sue composizioni, è la costante ricerca del nuovo, quell’incessante voglia di sperimentare nuove forme espressive, confrontandosi ogni volta con linguaggi e tradizioni diverse. Sentirete affiorare la bossanova e il samba, tracce di Tropicalismo, i ritmi afro-reggae e i suoni dell’avanguardia newyorchese, la canzone tradizionale spagnola e gli omaggi alla musica pop e rock. Persino qualche canzone italiana. Sarà un bel sentire, vi assicuro. 

Quelle canzoni vi mostreranno la straordinaria apertura di Caetano Veloso verso tutto ciò che è altro e nel contempo vi diranno dell'autentica venerazione che l’artista nutre per il patrimonio musicale (ma culturale tout court) della propria terra (probabilmente la sua più grande fonte d’ispirazione). Questo, a mio avviso, è ciò lo rende davvero unico; di certo, il più autorevole messaggero che la musica brasiliana abbia oggigiorno.

martedì 15 luglio 2008

Un continuo gioco di specchi

Luca è un amico, e degli amici qui sarebbe meglio non scrivere. Quando però gli amici sono persone di talento, curiose, intelligenti e disegnano cose egregie come questo romanzo a fumetti, allora parlarne diventa naturale. Ho aspettato più di un anno per mettere nero su bianco queste brevi impressioni su (in)certe stanze, e c'è un perché. Come i vini pregiati, anche le belle storie, i buoni romanzi, vanno prima fatti invecchiare, poi decantare, per apprezzarne meglio i profumi, le fragranze, e i sapori.

(in)certe stanze (Edizioni Tunué) è un noir splendidamente disegnato da Luca Russo e (ri)scritto e sceneggiato da Cristiano Silvi (la prefazione è di Carlo Lucarelli). Narra di Francisco Martinez, esperto di cinema che ha dedicato l'intera vita a risolvere il mistero della scomparsa dell'attore argentino Paco De Jorge. Di una ragazza dalla prorompente bellezza. Di una telefonata che non arriva. Dell'ennesima lettera inviata e di una risposta attesa da tempo. Di un improvviso viaggio a Buenos Aires. Di uno sconvolgente incontro che si rivelerà fatale.

E' una storia, questa, fatta di rimandi, di sdoppiamenti, e arricchita da un continuo gioco di specchi: il presente e il passato, l'Italia e l'Argentina, i sogni e la realtà. Un noir forte di una sceneggiatura solida (un bravo a Cristiano Silvi) e di una narrazione dall'incedere lento e misterioso, che si concede al lettore pagina dopo pagina.

(in)certe stanze si legge in meno di un'ora. Tempo ben speso, che alla fine lascia con un po' di amaro in bocca. Invita a riflettere, questo graphic novel: sul passare del tempo, sui ricordi, su ciò che sembra e ciò che in realtà è.

lunedì 14 luglio 2008

Quando la ricerca incontra la tradizione

La figura di Dave Liebman (New York, 1946) è senza dubbio tra le più importanti che il jazz abbia espresso negli ultimi vent'anni. Cresciuto nel gruppo di Elvin Jones (1971-73) e poi approdato alla corte del Miles Davis elettrico (1973-74), il sassofonista (tenore e soprano, che all'occorrenza suona anche flauto, tastiere e batteria) ha disseminato durante la sua lunga carriera gemme di rara bellezza, incidendo in contesti sempre diversi, e spingendosi talvolta in arditi territori di ricerca (come nello splendido Drum Ode, dove si confronta con un ensemble di percussioni). 

Liebman è un musicista dalla sensibilità straordinaria, che non manca mai di sorprendere e di fornire nuovi spunti alla storia dell'improvvisazione in campo jazzistico. Un sassofonista che da quasi un ventennio costituisce un punto di riferimento (alla stregua di uno Steve Lacy) per chiunque voglia imboccare un sax soprano. Il suo credo musicale, si legge in un articolo a sua firma, si fonda su tre principi riconducibili tutti alla lettera H: Hand, Head, Heart. Ed, in effetti, ascoltando i suoi dischi, emerge in maniera abbastanza chiara che uno degli obiettivi del musicista è quello di far convivere nella stessa musica astrazione e visceralità (o, se si vuole, intelletto e cuore). Ma, vista l'enorme difficoltà dell'impresa, ciò non sempre riesce, e allora ecco che alcuni suoi dischi diventano mero esercizio intellettuale e - si può dire? - ogni tanto annoiano.

Plays the Music of Cole Porter, uscito per la Red Records di Sergio Veschi quindici anni fa, è un disco che propone Dave Liebman alle prese con un repertorio tradizionale. L'autore scelto è il celebre compositore americano Cole Porter, la cui concezione armonica sembra essere molto apprezzata dal sassofonista newyorkese. Probabilmente, la riuscita di questo disco si deve anche al fatto che Liebman si cimenta di rado con gli standards, e ciò rende il lavoro su Porter una vera e propria occasione di incontro (e confronto) tra la sperimentazione ed un repertorio classico. 

Magnificamente supportato da una ritmica precisa e ricca di colore (Steve Gilmore al basso, Bill Goodwin alla batteria), Dave Liebman utilizza classici come I Love You o I've Got You Under My Skin per piegarli alla propria concezione musicale, così che possa rivalutarli ed arricchirli di nuova luce – notevoli, alcuni squarci improvvisati. In altre parole, il musicista traduce anziché riprodurre, e grazie ad un approccio così intelligente ricava un disco fresco, brillante ed anche - sorprendentemente? - rispettoso della tradizione jazzistica. 

Quanto ai brani che compongono questo lavoro, non c'è che l'imbarazzo della scelta: tutti di ottima fattura, con personale predilezione per i già citati I Love You e I've Got You Under My Skin, per It's All Right With Me e per i due straordinari duetti, rispettivamente con basso e batteria, di Why Do I Care? e Ridin' High; quest'ultimo, di una tale fisicità da riportare alla mente il Coltrane più viscerale.

domenica 13 luglio 2008

Piacevoli (ri)scoperte

Stamattina, nel bel mezzo delle pulizie di stagione, ho ripescato dal mio scaffale alcune incisioni di Charles Mingus (quelle per la Candid) che non ascoltavo da anni. 
Devo dire che, a distanza di quasi cinquant'anni dalla loro incisione, questi brani non hanno perso un grammo della loro freschezza. Ho deciso così di riproporre un breve articolo che scrissi nel lontano 2001 per l'ormai defunto web-magazine Ciao Jazz. Vuoi vedere che riesco a mettere la pulce nell'orecchio a quanti non si sono ancora accostati a tanta meraviglia... 

Mingus on Candid 

La carriera di Charles Mingus - contrabbassista, pianista e compositore nato a Nogales, Arizona, il 22 aprile del 1922 - è ricca di perle disseminate in un arco di tempo lungo poco più di 25 anni. Un quarto di secolo nel quale il musicista ha dimostrato di meritare ampiamente quel titolo di Barone che, scherzosamente assegnatogli, in un'ipotetica scala gerarchica dei grandi compositori jazz lo renderebbe secondo soltanto al sommo Duke Ellington. Un talento immenso e luminosissimo, quello di Mingus, corredato da una personalità tra le più vulcaniche e grintose dell'intero panorama jazzistico.

Nel 1959, a trentasette anni, il bassista vive quello che è forse l'anno più prolifico della sua carriera. Tra febbraio e novembre, il musicista compone alcune delle pagine più belle della sua produzione, nonché di tutta la letteratura jazzistica: Nostalgia In Time Square, Wednesday Night Prayer Meeting, Better Git It In Your Soul, Goodbye Pork Pie Hat, Bird Calls, Open Letter To Duke, My Jerry Roll Soul, Fables of Faubus. Brani indimenticabili, nei quali si mescolano lo swing e il be-bop, l'improvvisazione collettiva e il blues, la colta europea e l'hard-bop. Musica grandiosa, che ha spinto un noto critico a definirla come 'il ponte perfetto di collegamento tra le due rivoluzioni del jazz moderno', cioè il bop ed il free. Niente di più vero, laddove Mingus ha perpetuato gli insegnamenti dei boppers ed anticipato (già nei primi anni '50, con la musica del suo Jazz Workshop) gli argomenti di quella che sarà la New Thing.

All'indomani di quel fruttuoso 1959, dopo aver inciso per la Mercury il superbo Pre-Bird (maggio '60), Mingus decide di cambiare rotta e passo, sciogliendo il suo vecchio gruppo ed ingaggiando nuovi talenti. Si apre così alle tematiche d'avanguardia (lui che ne era stato tra i precursori!), lasciando i solisti liberi d'improvvisare e la sua musica diviene - se possibile - ancor più espressiva, viscerale, proiettata verso l'avvenire; ma resta, comunque, ancorata al blues e alla tradizione. Un suo fedelissimo, il trombonista Jimmy Knepper, ricorda: "[Mingus] voleva un'orchestra giovane. Pensava che noi fossimo troppo vecchi, e lui era preoccupato… Ornette Coleman era appena uscito fuori e suonava al Five Spot. Allora Mingus prese Curson e Dolphy e gli disse che voleva da loro le stesse cose che facevano Ornette Coleman e Don Cherry"(in Mario Luzzi, Charlie Mingus).

L'occasione per proporre la musica del nuovo quintetto arriva con il festival di Antibes, nel luglio del 1960. Sul palco fancese lo accompagnano i fidati Booker Ervin e Dannie Richmond, il giovane Eric Dolphy - che diverrà in breve tempo un cardine dei nuovi Jazz Workshop - ed il trombettista Ted Curson. Al gruppo si unisce a sorpresa Bud Powell, il più insigne rappresentante del pianismo bop, il quale lascia un'impronta indelebile in una versione a dir poco splendida di I'll Remember April. Il concerto è un vero trionfo; ciò nonostante, verrà pubblicato su disco, col titolo Mingus at Antibes, soltanto nel '76.

L'interessamento di Nat Hentoff, amico di Mingus, celebre critico e nuovo direttore artistico della Candid (coraggiosa etichetta che purtroppo avrà vita breve), arriverà di lì a poco. Nell'autunno del 1960, in sole due sedute d'incisione, Charles Mingus registra per la giovane label diciannove composizioni. Quelle di gran lunga più interessanti furono raccolte in un album, Charles Mingus presents Charles Mingus, considerato tra i suoi più memorabili. Il disco è registrato il 20 ottobre al Nola Penthouse Studios di NY, in quartetto con Ted Curson (tromba), Eric Dolphy (sax alto, clarinetto basso) e Dannie Richmond (batteria), e comprende quattro brani.

Apre le danze Folk Forms No.1, blues espressionista - già presentato da Mingus, in quintetto, al festival di Antibes - in cui risalta un mirabile assolo di Ted Curson. Segue la sarcastica Original Faubus Fables, vale a dire la versione originale del pezzo apparso su Ah Um, privo di parte cantata, col titolo Fables of Faubus. Ispirato ai fatti di Little Rock - dove il governatore Orval Faubus aveva impedito ad alcuni studenti neri l'accesso alla scuola media -, Original Faubus Fables è un brano caricaturale nel quale Mingus e Dannie Richmond lanciano vere e proprie invettive contro il politico razzista ("Name me someone who's ridiculous, Dannie. Governor Faubus!" recitano ad un certo punto). Un sincero 'manifesto politico', nonché uno dei massimi capolavori del Nostro, da qualsiasi profilo lo si osservi. Altra gemma contenuta in Mingus Presents Mingus è What Love?, composizione liberamente tratta da What Is This Thing Called Love di Cole Porter. Il 'cuore' di questo brano è dato da un poetico, allucinato duetto tra Mingus e Dolphy, nel quale i due improvvisano una originale conversazione, imitando, coi loro strumenti, la voce umana. Un momento di grande suggestione, che evidenzia la straordinaria capacità improvvisativa (ed espressiva) di Eric Dolphy - musicista del quale non mi stancherò mai di tessere le lodi -, qui alle prese con uno strumento ostico come il clarinetto basso. Chiude la bellissima All The Things You Could Be By Now If Sigmund Freud's Wife Was Your Mother, rivisitazione tutta mingusiana del famoso All The Things You Are.

Dalla seduta del 20 ottobre 1960 escono altri due brani, MDM ed una splendida Stormy Weather, inclusi poi in Mingus, un album che diverrà - col già citato Charles Mingus Presents Charles Mingus e con la Freedom Now Suite di Max Roach - tra i pezzi più pregiati del catalogo Candid. Un cenno particolare lo merita MDM - acronimo che sta per Monk, Duke & Mingus -, composizione ottenuta dall'incrocio di tre temi: Straight No Chaser di Monk, Main Steam di Ellington e Fifty-First Street Blues dello stesso Mingus. In questa registrazione, il contrabbassista è affiancato da un ensemble di tutto rispetto, formato da Ted Curson e Lonnie Hillyer (tromba), Eric Dolphy (sax alto, clarinetto basso), Charles McPherson (sax alto), Booker Ervin (sax tenore), Jimmy Knepper e Britt Woodman (trombone), Nico Bunink (piano) e Dannie Richmond (batteria).

Il brano che chiude Mingus, dal titolo Lock 'Em Up, è il frutto della seconda seduta d'incisione per la Candid, quella dell'11 novembre 1960. La composizione è ispirata al periodo trascorso dal bassista, sul finire degli anni '50, al Bellevue Hospital di New York, l'ospedale nel quale egli, afflitto da problemi psichici, aveva chiesto personalmente di essere ricoverato. In Lock 'Em Up (rinchiudeteli), registrata con organico allargato, troviamo al piano un giovane Paul Bley (già presente con Mingus in Pre-Bird ), mentre restano esclusi i trombonisti Knepper e Woodman. Lo stesso gruppo, ad eccezione di Curson, inciderà un altro pezzo pregevole intitolato Bugs, che sarà poi incluso nell'album Reincarnation Of A Love Bird, il terzo di Mingus per la Candid.

Album anche questo notevole, del quale, oltre alla title-track (ispirata a Charlie Parker, e già apparsa nel '57 sull'ottimo The Clown), vanno segnalati due brani, entrambi incisi in sestetto con la partecipazione straordinaria di Roy Eldridge, Tommy Flanagan e Jo Jones. Sono il frizzante R&R (a firma Roy Eldridge e Ray Brown), ed una rivisitazione del classico Body and Soul, che si apre con un chorus di Eldridge che evidenzia l'ottimo stato di forma del leggendario trombettista.

A completare il poker di lavori editati dall'etichetta guidata da Nat Hentoff, è Mysterious Blues, disco-raccolta che contiene pezzi originariamente inclusi negli LP a più mani The Jazz Life e Newport Rebels (Candid), nonché svariate alternative takes ed un inedito di Dannie Richmond (Melody From The Drums). Dal contro-festival di Newport (la rassegna 'ribelle' organizzata da Max Roach e dallo stesso Mingus per protestare contro la 'commercializzazione' del blasonato Newport Festival) sono tratti il lungo blues che dà il titolo all'album, la bella Wrap Your Troubles In Dreams e Me and You Blues, quest'ultime due suonate in quartetto ancora con Eldridge, Flanagan e Jo Jones. Tra le altre, emerge Vassarlean, brano che dimostra come Mingus fosse in grado di rielaborare i temi adattandoli perfettamente ad ogni contesto. La composizione, infatti, altro non è che Weird Nightmare - ballad del '46, maestosa e raffinata su Pre-Bird - riproposta in una nuova veste: strumentale e teneramente aggraziata.

(Aldo Scalini 2001)

sabato 12 luglio 2008

Thelonious Monk, un genio della musica moderna

A sessant'anni dalla pubblicazione delle prime incisioni di Thelonious Monk, ripropongo un articolo che scrissi tempo fa per un bel jazz magazine che purtroppo ebbe vita breve... 

Monk: A Genius of Modern Music

Fu grazie all'impegno e alla lungimiranza dei proprietari di casa Blue Note che le composizioni di Thelonious Monk vennero incise per la prima volta su un disco a lui intestato. Le prime registrazioni furono pubblicate nel 1948, in piena rivoluzione bebop, quando del misterioso pianista, del suo genio e della sua originalità, si sapeva ancora poco.

Nato a Rocky Mount, North Carolina, il 10 ottobre del 1917, Thelonious Sphere Monk si trasferisce a New York in tenera età, stabilendosi con la famiglia nel quartiere di San Juan Hill. Muove i suoi primi passi nel mondo musicale suonando la tromba, abbandonata a cinque anni per il pianoforte, strumento del quale apprenderà i rudimenti da autodidatta. Dopo aver preso lezioni private, e frequentato alcuni corsi di teoria al conservatorio di quartiere, il suo apprendistato continua negli ambienti religiosi: dapprima all'organo come accompagnatore di sua madre, corista nella chiesa di St. Cyprien; in seguito, come pianista in un quartetto rhythm and blues che accompagna una guaritrice evangelista in giro per gli States.

Forte di un'intensa attività pianistica, poco più che ventenne, Monk è già un musicista jazz. All'inizio degli anni Quaranta viene scritturato al Minton's Playhouse, la fucina del bop, dove suona regolarmente nel gruppo del batterista Kenny Clarke (di lì a poco ci saranno gli incontri con Bird, Diz, e con Coleman Hawkins, grande sostenitore dei boppers, il quale lo farà esordire in studio come sideman). Il pianista, tuttavia, non sembra trovarsi a proprio agio tra le stelle del nuovo jazz: pur essendo tra i maggiori agitatori della rivoluzione bebop, non veste la divisa dei boppers, dei quali sembra addirittura non condividere le idee musicali. Magnifico paradosso di un compositore che nell'apparente contraddizione trova uno dei suoi punti di forza.

In realtà, Monk, nel contribuire al processo di rinnovamento jazzistico di quegli anni, tende a concentrarsi sempre più sul proprio percorso compositivo: per questo si cura poco di ciò che si muove intorno a lui. E' un artista bizzarro, dallo spirito indipendente, che trae ispirazione principalmente dalla sua stessa musica (è lui ad affermarlo). Un personaggio egocentrico. E sarà proprio questo atteggiamento, questa sua naturale inclinazione all'isolamento, a procurargli la fama di musicista misterioso e imperscrutabile. Così l'estraneità diviene stranezza, e Thelonious Monk diventa per molti un pianista 'stravagante', tanto da guadagnarsi, presso i colleghi, l'appellativo di Mad Monk. 

Il suo modo di suonare - nel quale si scorgono tracce di stride piano, affinità ellingtoniane ed influenze, più interiori che stilistiche, delle passate esperienze gospel e spiritual - è non meno originale della sua personalità. Non avendo una preparazione accademica, Monk trova presto uno stile pianistico tutto suo: percussivo, fisico, dissonante. Anche il favoloso gioco di piedi (si dava il tempo con le gambe), l'abitudine di percuotere i tasti con le dita tese, ed il magistrale uso delle pause, sono tratti distintivi del suo stile. Monk fa musica allontanandosi dai modelli preesistenti del pianismo jazz: non ricalca orme già impresse, suona come gli detta dentro, spesso in maniera primitiva, e questa pregevole peculiarità è uno degli aspetti dell'artista che suscita maggior interesse. Una spiccata originalità che si riflette naturalmente nelle composizioni monkiane - quasi sempre brevi e fondate sul blues -, le quali appaiono legate in modo indissolubile, nella struttura, agli stilemi del pianista. Sono creazioni colme di tensione ritmica, spesso costruite su armonie circolari, e il più delle volte pervase da una tenebrosità che le rende enigmatiche. Un brano come Thelonious - il cui tema è basato su una sola nota - la dice lunga sulla spigolosità delle sue architetture sonore. 

Il Thelonious Monk che entra per la prima volta in studio d'incisione a capo di un proprio complesso (un sestetto con Art Blakey, Gene Ramey, Danny Quebec West, Billy Smith e Idrees Suleman) ha appena firmato un contratto con la Blue Note, una delle più prestigiose case discografiche dell'epoca. E' il 15 ottobre del 1947. In quella, ed in altre due sedute (24 ottobre e 21 novembre), il pianista registra - col succitato sestetto, in trio ed in quintetto - la bellezza di quattordici composizioni, molte delle quali sono annoverabili tra i suoi capolavori. Round Midnight, innanzitutto, il più famoso dei suoi temi, già inciso nel '44 dalla big band di Cootie Williams: un brano struggente ed appassionato che diverrà in breve tempo uno standard ripreso da tutti i grandi del jazz (Miles per primo ne darà delle incantevoli versioni).

Inoltre Off Minor, Well You Needn't, Monk's Mood, la sua prediletta Ruby My Dear: composizioni che il pianista riproporrà più volte, nelle incisioni in studio e dal vivo, in gruppo e da solo. E ancora. Vanno almeno citate In Walked Bud (gioiello bop ispirato al suo pupillo Bud Powell), Introspection, Hump e Who Knows, così come meritano attenzione le splendide riletture di April In Paris (Duke-Harburg) e Nice Work If You Can Get It (Gershwin), brani che evidenziano come l'originalissimo stile monkiano si manifesti anche nel trattamento di un classico. 

Fatta eccezione per la breve seduta del 2 luglio 1948 in quartetto col vibrafonista Milt Jackson (dalla quale escono frutti pregiati quali I Mean You, Epistrophy e Misterioso), Thelonious Monk non torna ad incidere da leader per un triennio. E' un momento buio per il pianista, che in quegli anni fatica persino a procurarsi le scritture nei locali giusti. La sua musica risulta difficile, ostica... in una parola, incomprensibile. Neppure come sideman le cose vanno meglio: le uniche registrazioni di questo periodo sono quelle effettuate per la Verve (6 giugno '50) al fianco di Bird e Dizzy, vecchi compagni del Minton's. Thelonious Monk rientra in studio per la Blue Note il 23 luglio del '51, in quintetto con Milt Jackson, Sahib Shihab, Al McKibbon ed Art Blakey. In quell'unica seduta registra sei brani, tutti particolarmente angolosi: Criss Cross, Four In One, Ask Me Now, Eronel, Willow Weep For Me (Ronnell) e il capolavoro Straight No Chaser, una delle pagine più rappresentative dell'intero songbook monkiano.

Il pianista, dunque, nonostante le scarse vendite dei suoi dischi e le reazioni negative di una parte della critica, prosegue per la sua strada ("[...] non mi interessa ciò che gli altri scrivono. Non permetto che quelle cose mi disturbino..."). Incide nuovamente per l'etichetta americana in una seduta del 30 maggio 1952, questa volta a capo di un sestetto nel quale brillano le stelle Kenny Dorham (tromba), Lucky Thompson (sax tenore) e Max Roach (batteria). Ancora sei composizioni (spicca un'ottima Hornin' In), ed è ancora il suo stile, il suo particolare linguaggio, a risaltare. Questo è Monk: sorprendente, spigoloso, inconfondibile!

Le incisioni in studio del periodo 1947-1952 sono contenute in due dischi, Genius of Modern Music Vol. 1 e 2, dei quali già il titolo in sé sembra mettere l'accento sulle incredibili capacità compositive del pianista. I due volumi sono stati ristampati dalla Blue Note, nella serie curata da Rudy Van Gelder, con una nuova veste grafica. Delle registrazioni mancano i quattro brani incisi il 2 luglio '48 con Milt Jackson (rintracciabili in Milt Jackson, Wizard of The Vibes), ma in compenso le riedizioni offrono una bella manciata di alternate takes (complessivamente dodici) ed una second take di Sixteen uscita dalla seduta del 30 maggio '52. Tutte incisioni di livello eccelso, ideali per avvicinarsi alla musica monkiana; addirittura indispensabili - ma non bastevoli - per comprenderne l'evoluzione. Raccolte che non contengono semplicemente brani di Thelonious Monk; ma l'arte, lo spirito, e la straordinaria sensibilità di uno dei più grandi compositori del Novecento. Un genio della musica moderna, per l'appunto.

(Aldo Scalini 2001)

venerdì 11 luglio 2008

Dialektos

Maria Pia De Vito ha scelto di presentare il suo nuovo lavoro, Dialektos, durante la serata inaugurale del Pomigliano Jazz Festival. Non a caso, dice, perché nata da queste parti e, come le sue scelte musicali dimostrano, molto legata alle sue origini partenopee. 

Il titolo del nuovo progetto, del quale è coautore il pianista e compositore inglese Huw Warren, rimanda all'idioma, al dialetto appunto, ma anche, come la stessa cantante spiega, al colloquio, all'arte della dialettica... forma di comunicazione e conoscenza basata sulla discussione. Questo concerto testimonia dunque l'incontro - ma sarebbe meglio dire il dialogo -  tra due musicisti che si erano conosciuti anni fa, durante l'esperienza inglese della De Vito, e si sono poi ritrovati, grazie a internet, l'anno scorso.   

Non conoscevo per niente Warren, e devo dire che mi hanno molto impressionato il suo approccio (ritmico) allo strumento, la versatilità e l'espressività del suo pianismo. L'affiatamento con Maria Pia De Vito mi è sembrato ottimo: il pianista inglese ha (in)seguito brillantemente le sortite solistiche della cantante, sempre più protesa verso la ricerca di soluzioni di confine. 

Del resto, Maria Pia De Vito non è nuova alle escursioni in territori di frontiera. Già in dischi come Triboh, Verso o Nel respiro la capacità dell'artista di variare continuamente le coordinate geografiche e stilistiche della propria musica emergeva appieno. Così, anche questa sera la De Vito ha dimostrato, se ancora se ne sentiva il bisogno, di essere una cantante ricca di talento, dotata di un'estensione vocale, di un'espressività e di un senso del ritmo che, a mio parere, ne fanno una delle punte di diamante del canto jazz europeo e non solo (se n'erano accorti al Down Beat già nel 2001, inserendo il suo nome nel celebre Critics Poll, alla categoria Beyond Artists).

Dei brani proposti dal vivo mi hanno particolarmente convinto la bella rilettura di Miguilim, composizione dal sapore carioca della italianissima (e bravissima) Rita Marcotulli, e la tenera versione della celebre poesia di Totò, Si fosse n'auciello. 

Delle altre composizioni parlerò più diffusamente non appena avrò ascoltato il disco (uscito per la Egea/Parco della Musica), per la realizzazione del quale il duo si è avvalso della collaborazione di uno dei massimi virtuosi italiani del clarinetto: Gabriele Mirabassi.